«C’è che noi nella storia siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? Uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noia liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi»

(Italo Calvino-Il sentiero dei nidi di ragno)

sabato 24 maggio 2014

IL SENTIERO DEI NIDI DI RAGNO-CAP XII







[...] Fuori è già notte. Il vicolo è deserto, come quando lui è venuto. Le impannate delle botteghe sono chiuse. A ridosso dei muri hanno costruito antischegge di tavole e sacchi di terra.
Pin prende la via del torrente. Gli sembra d'essere tornato alla notte in cui ha rubato la pistola. Ora Pin ha la pistola, ma tutto è lo stesso: è solo al mondo, sempre più solo. Come quella notte il cuore di Pin è pieno d'una domanda sola: che farò? Pin cammina piangendo per i beudi. Prima piange in silenzio, poi scoppia in singhiozzi. Non c'è nessuno che gli venga incontro, ora. Nessuno? Una grande ombra umana si profila a una svolta del beudo. -Cugino!- Pin! Questi sono posti magici, dove ogni volta si compie un incantesimo. E anche la pistola è magica, è come una bacchetta fatata. E anche il Cugino è un grande mago, col mitra e il berrettino di lana, che ora gli mette una mano sui capelli e chiede:
- Che fai da queste parti, Pin?
- Son venuto a prendere la mia pistola. Guarda. Una pistola marinaia tedesca.
Il Cugino la guarda da vicino.
- Bella. Una P. 38. Tienila da conto.
- E tu che fai qui, Cugino?
Il Cugino sospira, con quella sua aria eternamente rincresciuta, come se fosse sempre in castigo.
- Vado a fare una visita, — dice.
- Questi sono i miei posti, - dice Pin. - Posti fatati. Ci fanno il nido i ragni.
- I ragni fanno il nido, Pin? - chiede il Cugino.
- Fanno il nido solo in questo posto in tutto il mondo, - spiega Pin. - Io sono l'unico a saperlo. Poi è venuto quel fascista di Pelle e ha distrutto tutto. Vuoi che ti mostri?
- Fammi vedere, Pin. Nidi di ragni, senti senti.
Pin lo conduce per mano, quella grande mano, soffice e calda, come pane.
- Ecco, vedi, qui c'erano tutte le porte delle gallerie. Quel fascista bastardo ha rotto tutto. Eccone una ancora intera, vedi?
Il Cugino s'è accoccolato vicino e aguzza gli occhi nell'oscurità: —Guarda guarda. La porticina che s'apre e si chiude. E dentro la galleria. Va profonda?
- Profondissima, - spiega Pin. - Con erba biascicata tutt'intorno. Il ragno sta in fondo.
- Accendiamoci un fiammifero, — fa il Cugino.
E tutt'e e due accoccolati vicini, stanno a vedere che effetto fa la luce del fiammifero all'imboccatura della galleria.
- Dai, buttaci dentro il fiammifero, - dice Pin, -vediamo se esce il ragno.
- Perché, povera bestia? — fa il Cugino. - Non vedi quanti danni hanno
già avuto?
- Di', Cugino, credi che li rifaranno, i nidi?
- Se li lasciamo in pace credo di si, - dice il Cugino.
- Ci torniamo a guardare, poi, un'altra volta?
- Si, Pin, ci passeremo a dare un'occhiata ogni mese. È bellissimo aver trovato il Cugino che s'interessa ai nidi di ragno.

ANDATO AL COMANDO


Andato al comando fa parte della raccolta di racconti di Ultimo viene il corvo (p. 57). In esso è raccontata la fucilazione di una spia da parte di un partigiano.  I due personaggi vengono chiamati solo "l'armato" e "il disarmato". A emergere sono soprattutto i pensieri di quest'ultimo. Calvino rivolge così la sua attenzione ora alla situazione umana del soldato fascista, ora allo stato d'animo del partigiano che assolve, senza alcun compiacimento, a un compito imposto dalla dura logica della guerra. 



Il bosco era rado, quasi distrutto dagli incendi, grigio nei tronchi bruciati, rossiccio negli aghi secchi dei pini. L’uomo armato e l’uomo senz’armi se ne venivano a zig-zag tra gli alberi, scendendo.
-Al comando, - diceva quello armato. - Al comando, andiamo. Mezz’ora di cammino a dir tanto.
- E poi? -
- Poi cosa? -
- Dico se poi mi lasciano andare, - fece l’uomo disarmato; a ogni risposta si metteva in ascolto, sillaba per sillaba, come cercasse una nota falsa.
- Certo che vi lasciano andare, - disse l’armato.
- Io do il documento del battaglione, loro segnano sul registro e allora potete tornare a casa.
Il disarmato scuoteva il capo, faceva il pessimista. - Eh, son cose lunghe, capisco... - diceva,forse solo per sentirsi ripetere:
- Vi lasceranno subito, vi dico. -
- Facevo conto, - aggiunse, - facevo conto d’essere a casa per stasera. Pazienza.
- Io dico che ci arriverete, - rispose l’armato.
- Il tempo che loro facciano il verbale, poi vi lasciano. Bisogna bene che cancellino il vostro nome dal registro delle spie.
- Avete il registro delle spie?
- Sicuro che l’abbiamo. Tutti quelli che fanno la spia, noi lo sappiamo. E uno per uno li prendiamo.
- E c’è il mio nome segnato sopra?
- Già. C’era anche il vostro nome. Ora bisogna bene che lo cancellino, se no rischiate d’esser preso di nuovo.
- Allora bisogna proprio che vada io là, che spieghi a loro tutta la storia.
- Ecco che stiamo andando. Bisogna bene che vedano, che controllino.
- Ma ormai, - disse l’uomo senz’armi, - ormai lo sapete che sono dei vostri, che non ho mai fatto la spia.
- Appunto. Ormai lo sappiamo. Ormai siete tranquillo. 
 
Il disarmato annuiva e si guardava intorno. Erano in una grande radura, con pini e larici magri, uccisi dagli incendi, ingombra dirami caduti. Avevano abbandonato, ritrovato e riperso il sentiero, andavano come a caso per i pini radi, traversando
il bosco. Il disarmato non riconosceva i luoghi, la sera saliva con lame sottili di nebbia, in basso il bosco s’infoltiva dentro il buio.
L’allontanarsi dal sentiero lo faceva inquieto; provò - visto che l’altro sembrava camminasse a caso - provò a piegare verso destra, dove forse il sentiero proseguiva: l’altro piegò anche lui a destra, come a caso. Se lui si rimetteva a seguirlo, riprendeva a sinistra o a destra, secondo com’era più agevole il cammino.
Si decise a domandare:
- Ma dov’è il comando?
- Ci andiamo, - rispose l’armato. - Ora lo vedrete.
- Ma in che luogo, in che regione, pressappoco?
- Come si fa a dire? - rispose.
- Il comando non si dice che è in un luogo, in una regione. Il comando è dov’è il comando. Voi capite.
Capiva; era un uomo che capiva le cose, il disarmato. Pure chiese: - Ma non c’è una strada, per andarci? L’altro rispose: - Una strada. Voi capite. Una strada va sempre in qualche luogo. Al comando non si va per le strade. Voi capite.
Il disarmato capiva, era un uomo che capiva le cose, un uomo astuto.

Chiese: - Voi ci andate spesso al comando?
- Spesso, - disse l’armato. - Spesso, ci vado.
Aveva una faccia triste, senza sguardo. Conosceva poco i luoghi: sembrava, ogni tanto, che si fosse smarrito, e pure continuava a camminare come non gli importasse.
- É perché siete di turno per la corvé, quest’oggi, che v’hanno mandato a accompagnarmi?- chiese il disarmato, studiandolo.
- É un lavoro che spetta a me, l’accompagnarvi, - rispose - Accompagno io la gente al comando.
- La staffetta, siete?
- Ecco, - disse l’armato, - la staffetta.
«Una strana staffetta, - pensava il disarmato, - che non conosce i luoghi. Ma, - pensava, -oggi non vuole passare per le strade perché io non capisca dov’è il comando, perché non si fidano di me». Brutto segno, che non si fidassero ancora di lui; il disarmato s’ostinava a pensare questo. Ma c’era, in questo brutto segno, una sicurezza, che davvero lo stessero conducendo al comando e volessero lasciarlo libero, e al di fuori di questo brutto segno un segno più brutto ancora, c’era il bosco che si faceva più fitto e da cui non s’accennava a uscire, c’era il silenzio, la tristezza di quell’uomo armato.
- Il segretario l’avete pure accompagnato al comando? E i fratelli del mulino? E la maestra? - Fece questa domanda d’un fiato, senza rifletterci, perché era la domanda decisiva, che significava tutto: il segretario comunale, i fratelli, la maestra, erano tutta gente portata via, mai più tornata, di cui mai più nulla s’era saputo.
- Il segretario era un fascista, - disse l’armato, - i fratelli erano nella milizia, la maestra era nelle ausiliarie.
- Dicevo così per sapere, visto che non sono tornati più indietro.
- Dico, - insisté l’armato. - Loro erano quello che erano. Voi siete quello che siete. Non c’è da far confronti.
- Certo, - fece l’altro, - non c’è da far confronti. Solo chiedevo cosa ne è stato, così, per curiosità.
Si sentiva sicuro di sé, il disarmato, enormemente sicuro di sé. Era l’uomo più astuto del paese, era difficile fargliela. Gli altri, segretario e maestra, non erano più tornati: lui sarebbe tornato. 
«Io grande kamarad, - avrebbe detto al maresciallo. Partisan niente kaputt me. Io kaputt tutti partisan».
Forse il maresciallo si sarebbe messo a ridere. Ma il bosco bruciato era interminabile e i pensieri dell’uomo erano fasciati di sconosciuto e di oscuro, come zone di radura in mezzo a un bosco.
- Io non so bene del segretario, di tutti quegli altri. Faccio la staffetta io.
- Ma al comando lo sapranno, - insisteva il disarmato.
- Ecco. Lo domanderete al comando. Là lo sanno.
Si faceva sera. Bisognava camminare guardingo, in mezzo alla brughiera, badando come metteva i passi, per non scivolare su sassi nascosti sottoi cespugli fitti. E badare come si mettevano i pensieri, uno dietro l’altro, nel fitto dell’inquietudine, per non trovarsi a un tratto sepolto di paura. Certo, se lo avessero creduto una spia non l’avrebbero lasciato
così nel bosco, solo con quell’uomo che sembrava non gli badasse nemmeno;
avrebbe potuto scappargli tutte le volte che avesse voluto. Se lui tentava di fuggire, cosa avrebbe fatto, l’altro? Il disarmato cominciò, scendendo in mezzo agli alberi, a prendere un po’ di distanza, a piegare a destra quando quello piegava a sinistra. Ma l’armato continuava a camminare quasi senza badargli, e scendevano così per il bosco rado, distanti ormai l’uno dall’altro. Talora anche si perdevano di vista, nascosti da tronchi, da cespi di arbusti, ma a tratti il disarmato tornava a vedere l’altro sopra di lui che sembrava non gli badasse e pure gli teneva sempre dietro, a distanza.
«Se mi lasciano libero un momento, è la volta che non mi pigliano più», aveva pensato fin allora il disarmato. Ma ora si sorprese a pensare: «Se faccio tanto da riuscire a scappargli, è la volta...» E già vedeva nella sua mente i tedeschi, tedeschi a colonne, tedeschi su camion e autoblinde, visione di morte per gli altri, di sicurezza per lui, uomo astuto, uomo a cui nessuno poteva farla. Erano usciti dalle radure e dalle brughiere, erano entrati nel bosco fitto e verde, risparmiato dagli incendi: il suolo era coperto d’aghi secchi di pino.
L’uomo armato era rimasto indietro, forse aveva preso un altro cammino.
Il disarmato allora, cauto, con la lingua tra i denti,affrettò il passo, si spinse più nel folto, cacciandosi giù per i dirupi, tra i pini. Stava scappando: se ne accorse. Allora ebbe paura; ma comprese che ormai s’era allontanato troppo, che l’altro s’era certo accorto del suo
voler scappare e certo lo stava inseguendo: non c’era che continuare a correre, guai se ricascava a tiro dell’altro, adesso che aveva tentato di fuggire. Si voltò a un calpestio sopra di sé: a pochi metri c’era l’uomo armato che se ne veniva col suo passo calmo,indifferente. Aveva l’arma in mano. Disse - Di qua ci dev’essere una scorciatoia, - e gli fece cenno di precederlo. Allora tutto tornò come prima: un mondo ambiguo, tutto in male o tutto in bene: il bosco che invece di finire, s’infittiva, quell’uomo che quasi lo lasciava scappare senza dir niente. Chiese: - Ma non finisce mai, questo bosco? - Appena girata la collina ci siamo, - disse l’altro. - Coraggio, che stanotte siete a casa.
- Così, senz’altro mi lasceranno andare a casa? Dico, non vorranno tenermi lì come ostaggio, per esempio?
- Non siamo mica tedeschi, noi, da prendere degli ostaggi. Tutt’al più potranno prendervi gli scarponi, per ostaggio, ché siamo tutti mezzo scalzi.
L’uomo prese a brontolare come se gli scarponi fossero la cosa per cui temesse più che tutto, ma in fondo ci si rallegrava: ogni particolare della sua sorte, in bene o in male, serviva a ridargli un po’ di sicurezza.
- Sentite, - disse l’armato, - visto che ci tenete tanto, facciamo così: mettetevi i miei, di scarponi, fin tanto che siamo al comando, ché i miei sono tutti rotti e non ve li pigliano.
Io mi metto i vostri e quando vi accompagno indietro ve li rendo.
Ora anche un bambino avrebbe capito che era tutta una storia. L’uomo armato voleva i suoi
scarponi, ebbene, il disarmato gli avrebbe dato tutto quel che voleva, era un uomo che capiva, lui, era contento di cavarsela così
a buon mercato. «Io grande kamarad, - avrebbe detto al maresciallo. - Io dato loro scarpe e loro lasciato me andare». Il maresciallo forse gli avrebbe fatto avere un paio di stivaletti come i soldati tedeschi. - Allora voi non tenete nessuno: ostaggio, prigioniero? Nemmeno il segretario comunale e gli altri? - 
Il segretario aveva fatto prendere tre nostri compagni; i fratelli facevano i rastrellamenti con la milizia; la maestra andava a
letto con quelli della Decima. L’uomo disarmato si fermò. 
Disse: - Non credete mica che sia una spia anch’io. Non mi avete portato mica qui per ammazzarmi, - e scoprì un po’ i denti, come per sorridere.
- Se vi credessimo una spia, - disse l’armato, non starei tanto a far così -. Tolse la sicurezza
all’arma. - E così -. La puntò alla spalla, fece l’atto di sparargli addosso.
«Ecco - pensava la spia, - non spara». Ma l’altro non abbassava l’arma, schiacciava il grilletto, invece.
«A salve, a salve spara», fece in tempo a pensare la spia. E quando sentì i colpi sferrati addosso a lui come pugni di fuoco che non si fermavano più, riuscì ancora a pensare: «Crede d’avermi ucciso, invece vivo».
Cascò con la faccia al suolo e l’ultima cosa che vide fu un paio di piedi calzati coi suoi scarponi che lo scavalcavano. Così rimase, cadavere nel fondo del bosco, con la bocca piena d’aghi di pino. Due ore dopo era già nero di formiche.


domenica 11 maggio 2014

CALVINO POETA: I CANTACRONACHE





"Oltre il ponte"

( Italo Calvino e Sergio Liberovici)

Questo è uno dei tre componimenti che costituiscono l'esperienza poetica di Calvino, destinata alla canzone. Alla fine degli anni '50, infatti,  si costituisce un gruppo musicale formato da poeti e intellettuali: i Cantacronache. Nei testi, l'autore ricorda la sua militanza nella Resistenza e la necessità di tramandare alle future generazioni i valori che stavano alla base di quella scelta. Recentemente è stata ripresa e reiterpretata dai Modena City Ramblers nell'album collettivo "Appunti partigiani".



O ragazza dalle guance di pesca
o ragazza dalle guance d'aurora
io spero che a narrarti riesca
la mia vita all'età che tu hai ora.
Coprifuoco, la truppa tedesca
la città dominava, siam pronti:
chi non vuole chinare la testa
con noi prenda la strada dei monti.


Silenziosa sugli aghi di pino
su spinosi ricci di castagna
una squadra nel buio mattino
discendeva l'oscura montagna.
La speranza era nostra compagna
a assaltar caposaldi nemici
conquistandoci l'armi in battaglia
scalzi e laceri eppure felici.

Avevamo vent'anni e oltre il ponte
oltre il ponte ch'è in mano nemica
vedevam l'altra riva, la vita
tutto il bene del mondo oltre il ponte.
Tutto il male avevamo di fronte
tutto il bene avevamo nel cuore
a vent'anni la vita è oltre il ponte
oltre il fuoco comincia l'amore.

Non è detto che fossimo santi
l'eroismo non è sovrumano
corri, abbassati, dai corri avanti!
ogni passo che fai non è vano.
Vedevamo a portata di mano
oltre il tronco il cespuglio il canneto
l'avvenire di un giorno più umano
e più giusto più libero e lieto.

Ormai tutti han famiglia hanno figli
che non sanno la storia di ieri
io son solo e passeggio fra i tigli
con te cara che allora non c'eri.
E vorrei che quei nostri pensieri
quelle nostre speranze di allora
rivivessero in quel che tu speri
o ragazza color dell'aurora.

Avevamo vent'anni e oltre il ponte
oltre il ponte ch'è in mano nemica
vedevam l'altra riva, la vita
tutto il bene del mondo oltre il ponte.
Tutto il male avevamo di fronte
tutto il bene avevamo nel cuore
a vent'anni la vita è oltre il ponte
oltre il fuoco comincia l'amore

PER RIFLETTERE INSIEME






1. Il volo del corvo: Quale valore simbolico assume la presenza del corvo? Quale immagine viene evocata dal suo arrivo sulla scena del racconto?

2. Il punto di vista: La vicenda viene narrata attraverso lo sguardo giocoso e fantastico del giovane protagonista, così da trasformare la tragica realtà della guerra in un divertimento incantato. Individua alcuni passaggi del testo in cui si manifesta con maggiore evidenza questo aspetto.

GUIDA ALL'ANALISI DEL TESTO

ULTIMO VIENE IL CORVO
La condizione umana tra bene e male





Il racconto rispecchia l’impegno conoscitivo di Calvino, l’amara consapevolezza della problematicità della condizione umana, costantemente in bilico tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. Questo ragazzo, cresciuto allo sbando, per il quale la guerra è solo un’occasione di gioco, diventa l’emblema della «crudeltà innocente della vita» - Geno Pampaloni-

«Aggregatosi per puro caso alla banda partigiana, che per lui non si distingue da quella nazi-fascista, aveva sconvolto il suo gruppo per la mira infallibile: per catturare le trote le colpiva con il suo fucile a mano a mano che affioravano dall’acqua, mentre gli occasionali compagni avrebbero voluto buttare una bomba nel torrente per farle morire tutte. Il problema, è chiaro, si fa conoscitivo: di fronte alla rete prevedibile del sapere sistematico che teoricamente comprende tutto ma che in pratica non controlla i moti del singolo, il ragazzo senza nome, ma battezzato con l’epiteto popolare «faccia a mela», dimostra la superiorità di un sapere che di volta in volta si pone un obiettivo concreto. Il contesto della guerra è ormai abbandonato per assistere agli esercizi sin- golari di “faccia a mela” che centra qualsiasi oggetto entri nel suo campo visivo. Come la pistola di Pin, il fucile gli permette un pieno contatto con l’esterno: “Era un bel gioco andare così da un bersaglio all’altro: forse si poteva fare il giro del mondo”. Ma poi l’incontro con un tedesco lo obbliga a cambiare tattica, perché di un bersaglio dotato di logica si tratta: vuole salvare la pelle e quindi obbliga il ragazzo a scegliere il proprio campo visivo. Quando, arrivato il corvo, pensando che come al solito “faccia a mela” si sarebbe momentaneamente distratto per abbatterlo, il tedesco approfitta per fuggire, viene colpito invece inesorabilmente “giusto in mezzo a un’aquila ad ali spiegate che aveva ricamata sulla giubba” e che era il vero bersaglio assolutamente astorico, del gio- vane. Il corvo, simbolo antropologico di morte, significativamente non viene mirato e colpito. La conoscenza non aiuta a distinguere tra la parte giusta e quella sbagliata della Storia, se non in circostanze d’eccezione e non serve a risolvere i quesiti più drammatici dell’individuo, comunque in mano a un destino che lo sovrasta» (Benussi, 1989).

Lo stile rapido ed essenziale

Lo stile di Calvino neorealista è caratterizzato da frasi coordinate e da dialoghi brevi con espressioni informali del parlato (C’è pieno di trote... Cosa vuole questo?... Cribbio...Questo non ne sbaglia una... Se lui sta attento agli uccelli non sta attento a me. Appena tira io mi butto...).

La prevalenza delle sequenze descrittive (il paesaggio, la ricerca dei bersagli) determina un ritmo lento, così che la tragica realtà della guerra partigiana sfuma gradualmente nella dimensione fiabesca e irreale. Il ritmo si accelera nelle sequenze dell’inseguimento del soldato (Ad un tratto il proiettile gli sfiorò una guancia. Si voltò... Si buttò... Sentì... sbucò e sparò... L’inseguì... Gli bruciò...). 

Poi nella parte finale i punti interrogativi creano l’attesa angosciante della morte (Forse il corvo era troppo alto?... Si metteva a tirare alle pigne, adesso? A una a una colpiva le pigne che cascavano con una botta secca... Possibile che il ragazzo non lo vedesse?... Là c’è il corvo!).

ULTIMO VIENE IL CORVO



Il racconto, scritto nel 1946, è tratto dalla raccolta omonima. In seguito è confluito nella sezione Gli idilli difficili di tutti i Racconti (1958)



[...] Dall’otturatore aperto usciva un buon odore di polvere.
Si fece dare altre cartucce. Erano in tanti ormai a guardarlo, dietro di lui in riva al fiumicello. Le pigne in cima agli alberi dell’altra riva perché si vedevano e non si potevano toccare? Perché quella distanza vuota tra lui e le cose? Perché le pigne che erano una cosa con lui, nei suoi occhi, erano invece là, distanti? Però se puntava il fucile la distanza vuota si capiva che era un trucco; lui toccava il grilletto e nello stesso momento la pigna cascava, troncata al picciolo. Era un senso di vuoto come una carezza: quel vuoto della canna del fucile che continuava attraverso l’aria e si riempiva con lo sparo, fin laggiù alla pigna, allo scoiattolo, alla pietra bianca al fiore di papavero. - Questo non ne sbaglia una, - dicevano gli uomini e nessuno aveva il coraggio di ridere.
- Tu vieni con noi, - disse il capo.
- E voi mi date il fucile, - rispose il ragazzo.
- Ben. Si sa.
Andò con loro.
Partì con un tascapane pieno di mele e due forme di cacio. Il paese era una macchia d’ardesia, paglia e sterco vaccino in fondo alla valle. Andare via era bello perché a ogni svolta si vedevano cose nuove, alberi con pigne, uccelli che volavano dai rami, licheni sulle pietre, tutte cose nel raggio delle distanze finte, delle distanze che lo sparo riempiva inghiottendo l’aria in mezzo.
Non si poteva sparare però, glielo dissero: erano posti da passarci in silenzio e le cartucce servivano per la guerra. Ma a un certo punto un leprotto spaventato dai passi traversò il sentiero in mezzo al loro urlare e armeggiare. Stava già per scomparire nei cespugli quando lo fermò una botta del ragazzo. - Buon colpo, - disse anche il capo, - però qui non siamo a caccia. Vedessi anche un fagiano non devi più sparare.
Non era passata un’ora che nella fila si sentirono altri spari. - É il ragazzo di nuovo! - s’infuriò il capo e andò a raggiungerlo. Lui rideva, con la sua faccia bianca e rossa, a mela. - Pernici, - disse, mostrandole. Se n’era alzato un volo da una siepe.
- Pernici o grilli, te l’avevo detto. Dammi il fucile. E se mi fai imbestialire ancora torni al paese.
Il ragazzo fece un po’ il broncio; a camminare disarmato non c’era gusto, ma finché era con loro poteva sperare di riavere il fucile.
La notte dormirono in una baita da pastori. Il ragazzo si svegliò appena il cielo schiariva, mentre gli altri dormivano. Prese il loro fucile più bello, riempì il tascapane di caricatori e uscì. C’era un’aria timida e tersa, da mattina presto. Poco discosto dal casolare c’era un gelso. Era l’ora in cui arrivavano le ghiandaie. Eccone una: sparò, corse a raccoglierla e la mise nel tascapane. Senza muoversi dal punto dove l’aveva raccolta cercò un altro bersaglio: un ghiro! Spaventato dallo sparo, correva a rintanarsi in cima ad un castagno. Morto era un grosso topo con la coda grigia che perdeva ciuffi di pelo a toccarla. Da sotto il castagno vide, in un prato più basso, un fungo, rosso coi punti bianchi, velenoso. Lo sbriciolò con una fucilata, poi andò a vedere se proprio l’aveva preso. Era un bel gioco andare così da un bersaglio all’altro: forse si poteva fare il giro del mondo. Vide una grossa lumaca su una pietra, mirò il guscio e raggiunto il luogo non vide che la pietra scheggiata, e un po’ di bava iridata. Così s’era allontanato dalla baita, giù per prati sconosciuti.
Dalla pietra vide una lucertola su un muro, dal muro una pozzanghera e una rana, dalla pozzanghera un cartello sulla strada, bersaglio facile. Dal cartello si vedeva la strada che faceva zig-zag e sotto: sotto c’erano degli uomini in divisa che avanzavano ad armi spianate. All’apparire del ragazzo col fucile che sorrideva con quella faccia bianca e rossa, a mela, gridarono e gli puntarono le armi addosso. Ma il ragazzo aveva già visto dei bottoni d’oro sul petto di uno di quelli e fatto fuoco mirando a un bottone.
Sentì l’urlo dell’uomo e gli spari a raffiche o isolati che gli fischiavano sopra la testa: era già steso a terra dietro un mucchio di pietrame sul ciglio della strada, in angolo morto. Poteva anche muoversi, perché il mucchio era lungo, far capolino da una parte inaspettata, vedere i lampi alla bocca delle armi dei soldati, il grigio e il lustro delle loro divise, tirare a un gallone, a una mostrina. Poi a terra e lesto a strisciare da un’altra parte a far fuoco. Dopo un po’ sentì raffiche alle sue spalle, ma che lo sopravanzavano e colpivano i soldati: erano i compagni che venivano di rinforzo coi mitragliatori. - Se il ragazzo non ci svegliava coi suoi spari, - dicevano.
Il ragazzo, coperto dal tiro dei compagni, poteva mirare meglio. Ad un tratto un proiettile gli sfiorò una guancia. Si voltò: un soldato aveva raggiunto la strada sopra di lui. Si buttò in una cunetta, al riparo, ma intanto aveva fatto fuoco e colpito non il soldato ma di striscio il fucile, alla cassa. Sentì che il soldato non riusciva a ricaricare il fucile, e lo buttava in terra. Allora il ragazzo sbucò e sparò sul soldato che se la dava a gambe: gli fece saltare una spallina.
L’inseguì. Il soldato ora spariva nel bosco ora riappariva a tiro. Gli bruciò il cocuzzolo dell’elmo, poi un passante della cintura. Intanto inseguendosi erano arrivati in una valletta sconosciuta, dove non si sentiva più il rumore della battaglia. A un certo punto il soldato non trovò più bosco davanti a sé, ma una radura, con intorno dirupi fitti di cespugli. Ma il ragazzo stava già per uscire dal bosco: in mezzo alla radura c’era una grossa pietra; il soldato fece appena in tempo a rimpiattarcisi dietro, rannicchiato con la testa tra i ginocchi.
Là per ora si sentiva al sicuro: aveva delle bombe a mano con sé e il ragazzo non poteva avvicinarglisi ma solo fargli la guardia a tiro di fucile, che non scappasse. Certo, se avesse potuto con un salto raggiungere i cespugli, sarebbe stato sicuro, scivolando per il pendio fitto. Ma c’era quel tratto nudo da traversare: fin quando sarebbe rimasto lì il ragazzo? E non avrebbe mai smesso di tenere l’arma puntata? Il soldato decise di fare una prova: mise l’elmo sulla punta della baionetta e gli fece far capolino fuori dalla pietra. Uno sparo, e l’elmo rotolò per terra, sforacchiato.
Il soldato non si perse d’animo; certo mirare lì intorno alla pietra era facile, ma se lui si muoveva rapidamente sarebbe stato impossibile prenderlo. In quella un uccello traversò il cielo veloce, forse un galletto di marzo. Uno sparo e cadde. Il soldato si asciugò il sudore dal collo. Passò un altro uccello, una tordella: cadde anche quello. Il soldato inghiottiva saliva. Doveva essere un posto di passo, quello: continuavano a volare uccelli, tutti diversi e quel ragazzo a sparare e farli cadere. Al soldato venne un’idea: «Se lui sta attento agli uccelli non sta attento a me. Appena tira io mi butto. Ma forse prima era meglio fare una prova. Raccattò l’elmo e lo tenne pronto in cima alla baionetta. Passarono due uccelli insieme, stavolta: beccaccini. Al soldato rincresceva sprecare un’occasione così bella per la prova, ma non si azzardava ancora. Il ragazzo tirò a un beccaccino, allora il soldato sporse l’elmo, sentì lo sparo e vide l’elmo saltare per aria. Ora il soldato sentiva un sapore di piombo in bocca; s’accorse appena che anche l’altro uccello cadeva a un nuovo sparo.
Pure non doveva fare gesti precipitosi: era sicuro dietro quel masso, con le sue bombe a mano. E perché non provava a raggiungere il ragazzo con una bomba, pur stando nascosto? Si sdraiò schiena a terra, allungò il braccio dietro a sé, badando a non scoprirsi, radunò le forze e lanciò la bomba. Un bel tiro; sarebbe andata lontano; però a metà della parabola una fucilata la fece esplodere in aria. Il soldato si buttò faccia a terra perché non gli arrivassero schegge.

ITALO CALVINO





 Italo Calvino. Una mappa essenziale

1. Racconti di guerra, di bosco e di scoglio (‘45-’54)

1947 ll sentiero dei nidi di ragno 
1949 Ultimo viene il corvo 
1952 Il visconte dimezzato 
1954 L’entrata in guerra
   
2.Tra fiaba e modernità ('55-'63)

1956 Fiabe italiane
1957 Il barone rampante
1957 La speculazione edilizia
1958 I racconti di Marcovaldo
1958 La nuvola di smog
1959 Il cavaliere inesistente

 3. L’umano altrove (’63-’73)
1963 La giornata di uno scrutatore 

1964 La Prefazione al Sentiero.
1965 Le Cosmicomiche
1967 Ti con zero
1969 Il castello dei destini incrociati
1972 Le città invisibili

4. Leggere il mondo (‘74-’84)
1979 Se una notte d’inverno un viaggiatore 

1980 Una pietra sopra 
1983 Palomar 
1984 Collezione di sabbia

5.L’officina interrotta (‘85...opere postume)

(1988) Lezioni americane 

(1986) Sotto il sole giaguaro 
(1990) La strada di San Giovanni